Il doping nei social network

L’avvento dei canali digitali ha rappresentato per le aziende, i brand, i mass media tradizionali un modo completamente differente di porsi rispetto ai propri clienti. Il vantaggio principale è senza dubbio un rapporto costo/contatto inferiore ad altri canali, ma l’interesse è lievitato ulteriormente negli ultimi anni con l’importante esplosione dei cosiddetti social network. In una prima fase di mercato la promessa del marketing digitale era quella di riuscire a raggiungere con i propri messaggi un audience di riferimento vicina agli interessi di un’azienda, o ancor meglio ad un audience “profilata”. Per profilazione si intendevano alcuni dati sociodemografici (età, appartenenza di genere, città di residenza) o di consumo    precedentemente registrati presso delle imponenti banche dati, offrendo quindi all’inserzionista la possibilità di selezionare dei target di popolazione da colpire con una campagna pubblicitaria.
Da qualche anno invece, omettendo in questa analisi tutto il sistema pubblicitario sviluppato da Google, ha suscitato un crescente interesse la possibilità di avvicinare le persone intrattenendo con loro un rapporto basato sulla condivisione di contenuti e l’interazione diretta sui cosiddetti social network. Riuscire ad avere un fan in più sulla propria pagine Facebook o Google+, piuttosto che un follower su Twitter o Pinterest è diventato quindi un obiettivo strategico per molte aziende, fino al paradosso di invitare nei propri spot trasmessi in televisione o alla radio ad iscriversi alla pagina Facebook dell’azienda o di un prodotto specifico.
Come avviene nei mercati in forte via di sviluppo le tentazioni di ricorrere a delle scorciatoie è ghiotta e molte aziende (talvolta a loro insaputa) sono state illuse nell’affollamento delle proprie pagine dalla presenza di migliaia (ed a volte decine/centinaia di migliaia) di profili finti che si dichiarano “amici”, “fan” o “follower”. La discussione sulla liceità di tali pratiche (peraltro poco costose) e sulle ricadute di immagine che comportano è aperta: meglio avere una pagina con 1.000 fan reali che interagiscono e partecipano o una con 50.000 di fan relativamente poco reattivi?
Il discorso è molto più complesso di questa scelta dicotomica, ma ha destato sensazione uno studio preliminare pubblicato da un professore dello IULM di Milano che ha attribuito, pur con le dovute cautele, percentuali importanti di profili finti o in termine tecnico BOT (ovvero profili creati artificialmente via software) ad aziende molto note a livello mondiale e italiano. Tra quelle più “infestate” e note a livello internazionale si trovano DellOutlet (46% di BOT), WholeFoods (44%) e JetBlue (37%), tra i brand globali presenti in Italia si trovano IKEAITALIA (46%) VodafoneIT (39%) 3Italia e Nokiaitalia (36%) e infine tra quelle italiane “doc” Treccani (45%) librimondadori e coinstore (43%) con percentuali molto elevate di presunti finti Twitter Follower.
Il mercato sotterraneo di compravendita di profili è sempre più florido, ma cresce la consapevolezza che l’adozione di questi sistemi “dopanti” non offrano dei vantaggi nel medio e lungo periodo. Anzi, il boomerang di immagine che scaturisce da analisi come quella citata è potenzialmente molto dannoso. In questo senso è opportuno che chi voglia intraprendere la strada dei social network all’interno delle proprie strategie digitali, ponderi bene i propri obiettivi, i modi e gli strumenti per raggiungerli, sensibilizzando in tal senso anche le agenzie cui viene affidato l’incarico di supportare tali piani di sviluppo. In ultima analisi: non sempre “tanto” è meglio, soprattutto se a quel tanto corrisponde poco arrosto…

Diego Martone ©

Pubblicato sul numero 59 di:

Beverage and Grocery

Reperibile tra le testate pubblicate su FoodHospitality.it

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